Dibattito sul futuro del Pri/La segreteria nazionale ha posto il quesito "Che fare?" Già nel 1795 un partito repubblicano in Romagna di Riccardo Bruno Il segretario del Partito repubblicano, Francesco Nucara, ha invitato gli iscritti, ed in prima persona chi ricopre incarichi direttivi nel Pri, ad esprimersi sull'ipotesi di uno scioglimento del partito. Non è una ipotesi scandalosa. Nel senso che la stessa ci venne rivolta di fatto da Prodi e da Veltroni quando il Pri faceva parte dell'Ulivo. A sostegno di tale prospettiva vi è una ragione di semplificazione della vita politica italiana che trova molti sponsor nell'opinione pubblica. Vi è anche una ragione più contingente: la difficoltà di sopravvivere per un partito che stenta a raccogliere l'1 per cento dei consensi sul piano nazionale. Un dato che merita qualche riflessione. Nel centrosinistra si parlò, all'epoca, della necessità di una "commistione" delle varie culture, quella cattolica, quella socialista, quella laica. Si diceva che bisognava superare gli steccati culturali che avevano segnato la "prima Repubblica". Nel centrodestra vi è invece l'esigenza annunciata di costruire un grande soggetto utile a rafforzare il Partito popolare europeo. Se non è chiaro ancora dove collocare il grande partito del centrosinistra nello scenario continentale, va detto che il centrodestra, in proposito, ha le idee più chiare. Il primo problema che si pone ad un Partito repubblicano interessato allo scioglimento e alla confluenza nel Ppe, è quello dei suoi rapporti con l'Eldr, di cui pure è stato parte costituente dalla sua fondazione nel 1975. Solo due anni fa abbiamo fatto un congresso che riaffermava con vigore questa stretta identità politica. Se ora decidessimo di rivedere tale posizione, avremmo un primo adempimento formale da compiere e servirebbe un nuovo congresso. E il passaggio non è così semplice. Perché solo due anni fa non abbiamo preso affatto le distanze dall'identità liberaldemocratica. Anzi, l'abbiamo riaffermata con vigore a Milano l'autunno scorso. Si tratterebbe allora di capire quali sono i motivi per cui una determinata idealità è venuta meno; e così rapidamente. Non mi sento di escludere, comunque, che in due anni molte cose possano cambiare o che in questo scorcio di tempo i nostri rapporti con l'Eldr si siano allentati invece che rafforzarsi. Il fatto stesso che dell'Eldr faccia parte a pieno titolo l'Italia dei Valori e, a titolo personale, nel gruppo parlamentare, un vecchio comunista stalinista come Giulietto Chiesa, oggettivamente pone dei problemi. Non si può poi sottovalutare la circostanza che vede molti liberali sinceri impegnati nel Pdl così come nel Partito democratico, che è un'evoluzione dell'Ulivo. Tutto questo è materia di dibattito, ma non mi sembra questione preminente. Io, ad esempio, non definirei i repubblicani storicamente come forza "liberale". Mazzini se ne distingueva, e noi stessi ce ne siamo distinti non aderendo all'Internazionale liberale e mantenendo le distanze dal Pli. La stessa scelta europea mi pare più dettata dall'esigenza di una terza forza, puramente "democratica" e non socialista o cattolica. Ora che socialisti e cattolici si stanno ridefinendo profondamente, nulla impedisce che anche il Pri possa ridefinirsi a sua volta. Ma il problema vero non è ridefinirsi, o trovare una diversa collocazione: è lo sparire. Il confronto, per come è iniziato nella Direzione del partito alla fine del mese di ottobre, presenta già degli aspetti interessanti. Un amico autorevole, a cui personalmente sono legato da sincero affetto, ha parlato, ad esempio, di "realismo". Un realismo che indica l'assenza del nostro simbolo dalle elezioni politiche generali da quasi quindici anni e suggerisce la possibilità di far sopravvivere la nostra tradizione con una "fondazione" all'interno di un grande partito con tradizioni politiche molto diverse fra loro. Dovessi accettare le ragioni del realismo, preferirei semmai formare una corrente, perché la "fondazione" mi sa tanto di onoranza per i defunti. Dal mio punto di vista mi rendo ben conto dei problemi elettorali, ma resto convinto di come il repubblicanesimo sia un moto politico ben vivo e presente in molti italiani, che magari neppure sono consapevoli di darvi un contributo. Faccio subito un esempio concreto. Sulla "Stampa" di martedì scorso un ricercatore dell'università di Urbino, a me ignoto fino a quel momento, scrive di non essere d'accordo con le iniziative del ministro Gelmini, ma che non si sente di aderire al movimento di protesta contro le stesse perché la sinistra italiana ha contribuito in maniera significativa al degrado delle nostre università. Innanzitutto –sostiene - in termini culturali (e questa è cosa grave), poi difendendo e riproducendo una casta universitaria per censo e per famiglia: e questo non è repubblicano. La Repubblica pretende che il merito e le qualità si riproducano; non le caste, meno che mai il familismo. Ho avuto qualche esperienza universitaria in anni lontani e so di cosa si parla. Il Partito repubblicano deve promuovere i meriti dei singoli e guardare ai bisogni delle masse, non certo difendere i privilegiati. Non vedo questione più grande se si discute di una società democratica. Quando si pretende di pilotare la selezione della classe dirigente del paese, si ostruiscono gli spazi, si hanno dei favoriti, si creano dei privilegi, ecco che la democrazia risulta inquinata fin dal punto di partenza. Lo ha fatto la sinistra, come dice il ricercatore di Urbino, lo farebbe anche la destra, come sostiene il senatore Guzzanti che ha perfino coniato un termine di successo mediatico, che la decenza mi impedisce di trascrivere. Può anche darsi che si esageri, che si sia in malafede, ma un problema c'è, evidente. Ma c'è anche un problema più strettamente politico. Il centrosinistra parlava di superamento degli steccati. Bene, il centrosinistra, che ha fatto della vittoria di Obama il suo fiore all'occhiello, avrà un problema immediato. Ad esempio la posizione del Vaticano contraria alle proposte di Obama sulle staminali. Cosa farà il Pd? Suggerirà ad Obama di lasciar perdere o sosterrà l'indipendenza di azione del presidente di uno stato sovrano, portatore di una legittima istanza scientifica? A breve vedremo se gli "steccati" sono caduti e quanto forte sia il richiamo del Vaticano sulle tante anime cattoliche di quel partito. Il centrodestra sarà in gran parte a favore del Vaticano e su questo non ci piove. Berlusconi lascia la piena libertà di coscienza. Dal mio punto di vista servirebbe in Italia un partito che invitasse Obama ad andare avanti chiedendo al nostro paese di fare altrettanto. Servirebbe un movimento di opinione per continuare una battaglia che, tra l'altro, ci ha già visto protagonisti con amici come il senatore Del Pennino. Ma anche con i radicali, con Alessandra Mussolini, Margherita Boniver e personalità sparse del Pd. Non per sollevare steccati, ma per una battaglia di progresso. Può anche darsi che io soffra di un pregiudizio duro ad estinguersi, ma vorrei dire con chiarezza che non vedo i grandi partiti di massa capaci di fare queste battaglie. E dove le masse hanno principalmente istinti conservatori da tutelare, le minoranze devono sapersi muovere. Ma veniamo al Pdl, che lascia la libertà di coscienza e vuole poi che i giudici non si intromettano nel caso Englaro. Curiosa idea della libertà per chi, invece di difendere il diritto, chiede che i giudici si attengano alla legge scritta. E, se la legge non c'è, di tacere. Così era per i tribunali giacobini e per quelli, molto simili, della giustizia bolscevica. La nostra "fondazione" o la nostra "corrente" saprebbe impedire che divengano ministri uomini politici che compiangono i valorosi militi della Nembo, quei militi che ad Anzio spararono sulle forze americane? O impedire che sia capogruppo del partito unico in una delle due Camere un'altra personalità capace di commentare l'elezione del presidente degli Usa come la vittoria di un amico di al Qaeda? Perché, indipendentemente da ogni realismo, questo per noi dovrebbe essere veramente troppo. Meglio il surrealismo, la follia piuttosto. Almeno osserveremmo il rispetto verso un grande paese democratico, rispetto che, nei due casi succitati, è palesemente mancato e in maniera grave. Ovviamente anch'io mi riservo in Consiglio nazionale, in un eventuale congresso, di definire meglio la mia posizione a proposito dello scioglimento. Ma voglio dire sin da ora che ritengo libero il partito di fare la scelta che riterrà più opportuna. Il Pri è sovrano nelle decisioni e quella che si prospetta è delicatissima. Il segretario nazionale ha citato il "Che fare?". Come sappiamo, "Che fare?" era il romanzo di un autore liberale russo, Cernisevskij, che piacque molto a Lenin, e così titolò il suo famoso saggio politico. La premessa del "Che fare?" leniniano era però quella di avere "un piccolo gruppo compatto" capace di tenersi per mano e di affrontare le imprese più dure. Io voglio sperare che il Pri, se ritiene di dover fare qualcosa, si mostri egualmente compatto. Il Pri, per come noi lo conosciamo, nasce nel 1895. Una storia lunghissima. Di recente ho letto un documento - che non conoscevo - di un ufficiale dell'armata di Bonaparte in Italia che informava il Direttorio in Francia dell'esistenza di un gruppo in Romagna che combatteva i preti, i notabili e i soldati francesi. Questo gruppo si chiamava "partito repubblicano della Romagna". Era il 1795, cento anni prima della fondazione del Pri. Mi è venuto da pensare che, qualunque cosa decida il Pri, anche fra cento anni avremo un piccolo gruppo capace di opporsi a forze preponderanti e vessatorie che prenderà il nome di Partito repubblicano. Se non in Romagna, altrove. |